Ripartiamo … dalla bici

Sono stati anni duri, sia come associazione che come persona che come Società.

Vicissitudini interne, alcuni deceduti, la pandemia hanno sconvolto tutti i piani.

Adesso possiamo ripartire, finalmente!

E quale momento migliore per farlo se non il giorno che le Nazioni Unite dedicano alla bicicletta, mezzo sicuramente adatto allo SlowTravel?

Ripartire, con nuove ambizioni

Per un po’ di tempo siamo rimasti fermi.

Nel frattempo, però, abbiamo potuto constatare come il nostro modo di intendere il viaggio si sia progressivamente affermato.

Nel frattempo, però, ci siamo resi conto di come alcune idee non fossero perfettamente focalizzate.

Nel frattempo, però, il web si è evoluto e l’approccio al mondo social si è evoluto.

Nel frattempo, però, anche la Società ha avuto dei sommovimenti.

Ci siamo chiesti se Slowtravel avesse ancora un senso.

La risposta è stata “SI”.

Per questo abbiamo deciso che non possiamo rimanere ancora fermi.

Ad maiora!

 

Camminare è bello

E’ arrivata la primavera.

La temperatura si è addolcita, le giornate si sono allungate e i nostri istinti animali ci portano a stare all’aperto. Arriva la primavera e cominciamo a pensare all’attività fisica. Quella più facile da praticare è sicuramente camminare.

Al proposito, segnaliamo un interessante libro:

Camminare, un gesto sovversivo, di Erling Kagge, Einaudi Stile Libero

in cui l’autore, formidabile camminatore, invita ciascuno dei suoi lettori a rivalutare la possibilità di muoversi a piedi, sia per grandi che per piccoli spostamenti, cercando di attivare i recettori del nostro corpo degli “enzimi” generati dai piedi che si muovono: il cervello ha più tempo per pensare, la circolazione sanguigna fluidifica, l’umore, stimolato dalla possibile socialità migliora e la struttura muscolare si rafforza. Il tutto, naturalmente, a patto che il camminare non si risolva in una corsa contro il tempo e che si cerchi, per quanto possibile, di non seguire sempre gli stessi identici percorsi.

Questa è anche la filosofia di una grande viaggiatrice, nel libro:

La montagna vivente , di Nan Shepherd, Ponte alle Grazie

in cui l’autrice racconta le sue ripetute visite ad un complesso montagnoso della Scozia nord-orientale (i Cairngorm) visti e vissuti sempre con occhi diversi e da punti di vista diversi.

In Sentieri neri, di Sylvain Tesson, Sellerio, l’autore descrive e narra un modo di camminare sostanzialmente anarchico, in cui l’attenzione non è focalizzata sulla meta finale, che potrebbe anche non essere mai raggiunta, ma sulla possibilità che il viaggiatore devii dal percorso ottimale, per esplorare, approfondire, gustare  ciò che vi è “a lato“, idealmente realizzando un proprio, individuale, percorso…

I tre libri forniscono l’essenza del cammino secondo SlowTravel:

  • ogni camminata o passeggiata è un percorso di esplorazione;
  • ogni volta che torniamo in un luogo, potremmo vederne un aspetto diverso e intrigante;
  • la meta è importante ma arrivare non vuol dire percorrere un’autostrada quanto piuttosto conoscere il territorio che si attraversa.

Il 2019 sarà l’anno del turismo lento…

… così almeno ha deciso il Ministero dei beni ambientali e culturali ed ha anche presentato un interessante progetto su una rete di cammini da sviluppare ed organizzare in Italia.

Siamo molto contenti che la nostra filosofia di viaggio stia finalmente prendendo piede nella consapevolezza anche che ciò comporterà una parziale rivisitazione del settore.

Abbiamo, tuttavia, alcune perplessità sulla filosofia di fondo, che derivano dall’osservazione di esperienze precedenti, italiane ed europee.

Cerchiamo di illustrare cosa non ci torna.

Come prima cosa, diamo una rapida occhiata alla mappa. 

La mappa dei cammini come appare sul sito del Mibact

Ad un immediato colpo d’occhio notiamo la mancanza di intere regioni, o quasi. Abruzzo, Molise, gran parte della Campania e della Basilicata, la Sicilia, la Sardegna sembrano quasi assenti e Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Emilia ed anche Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige sembrano sottorappresentate.

Tranne che in Liguria, sembra che il bellissimo mare italiano abbia perso appeal. Se questo derivasse, poi, dalla convinzione che le zone marine sono autoreferenziali ed anche  non interessate al turismo lento, sarebbe un peccato. E lo sarebbe ancora di più se le regioni che sembrano sottorappresentate, che pure hanno un sistema turistico lento di prim’ordine, fossero state “emarginate” perché già autosufficienti o magari perché ancora una volta la competizione tra regioni rende difficile il coordinamento….

L’appeal dei cammini

Quasi come un format televisivo, si fa riferimento ai cammini avendo in mente il quello Compostela e la Via Francigena: esempi di sicuro successo, specialmente il primo, ma non immediatamente replicabili e, soprattutto, di numeri certamente limitati. Infatti il numero di pellegrini che annualmente percorre il cammino di Santiago è di circa 250.000 a fronte di circa 75.000.000 di arrivi turistici, almeno stando alle fonti statistiche. Dal punto di vista numerico, si parla dello 0,3% del totale. Questa percentuale può aumentare se si considerano i tempi di permanenza sul percorso, ma si tratta, in definitiva, di economia ancillare, anche e forse proprio per la filosofia che è alla base dei cammini.

Inoltre, i cammini sembrano voler ricalcare percorsi spirituali-religiosi che in una società secolarizzata potrebbe essere un fattore di richiamo minore rispetto ad una semplice organizzazione turistica. Se poi teniamo presenti esclusivamente i fattori religiosi, si restringe in modo importante la platea dei possibili destinatari. Sempre analizzando le statistiche del cammino di Compostela si scopre che i pellegrini italiani, non proprio noti, almeno in viaggio, per essere amanti della “fatica”, sono al secondo posto tra  i partecipanti, superando turisti notoriamente più attivi, come tedeschi, inglesi e francesi.

Turismo lento e cammini

La visione di turismo lento che sembra emergere, sia dal piano strategico del turismo che dal progetto dei cammini, è sostanzialmente ristretto alla fruizione a piedi e solo marginalmente (non meglio precisati collegamenti con la rete delle ciclovie) con altri mezzi di trasporto. Sembra invece escludere una mobilità tradizionale quale quella in automobile. Perché? visto che non si è obbligati a correre, andando in macchina?

Siamo convinti che l’inflazionato aforisma di Proust “L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi” ben ci si adatti in una rappresentazione multisettoriale, multidimensionale e multisensoriale del viaggio. Il turismo lento non può, e secondo noi non deve, essere collegato a tempi di percorrenza, strade obbligate, “bollinature” ecc. ma dovrebbe essere piuttosto dedicato all’esplorazione (non conosciamo tutto il bello che c’è in Italia ed in Europa, sia dal punto di vista culturale che naturalistico), liberi da qualunque costrizione, anche se solo immaginata.

Turismo lento e territori

Uno SlowTraveller non si isola dal territorio che attraversa confinandosi in percorsi delimitati e che sembrano finalizzati a tenere lontani i territori che attraversa. Territori che hanno sempre una propria spiccata culturale, eno-gastronomica, artigianale, agricola, ecc.. che lo SlowTraveller desidera conoscere.

Conclusioni

L’attitudine allo SlowTravel può essere innata e consistere nella naturale voglia di conoscenza. Ma può anche essere sviluppata e fatta sorgere attraverso operazioni di comunicazione o di sistema.

Può anche essere sviluppata e stimolata attraverso operazioni di comunicazione, educazione o di sistema, non solo o non sempre attraverso una mera replicata di “sistemi” o schemi che, certamente di successo, non possono attagliarsi completamente a specificità diverse; forse dovremmo riprendere la filosofia delle generazioni dei nostri sarti di un tempo, applicando ai nostri splendidi territori un abito su misura piuttosto che riadattare semplicisticamente, schemi e stoffe già utilizzati…

Peraltro, la filosofia dello SlowTravel può essere ben esemplificato e sintetizzato nel sito dell’Associazione (Il decalogo dello SlowTraveller)

La cooperazione e la collaborazione. Un’interessante recensione.

Sull’inserto Robinson de “La Repubblica” di oggi, 5 novembre 2017, è apparsa un’interessante recensione relativa a problematiche connesse con la formazione e, sembra di capire, una sostanziale stroncatura dei metodi di insegnamento portati avanti sino ad ora, che privilegerebbero l’individualismo rispetto alla cooperazione e alla collaborazione.

Cosa c’entra con lo SlowTravel e perché ho voluto commentare questa recensione?

Nei giorni scorsi, ho pubblicato, anche su facebook, delle considerazioni relative al mondo del blogging, cercando di evidenziare alcuni aspetti un po’ contraddittori che mi sembra non vengano evidenziati con sufficienza all’interno dell’articolo, forse per suscitare un interesse polemico.

Il primo.  È vero che la scuola, come si è venuta evolvendo nel mondo occidentale privilegia l’individualismo. Ma questo è limitato alle fasi della formazione di base. Mano a mano che si sale nella scala formativa, è ormai impossibile non cooperare e collaborare, vuoi per l’enorme quantità di materiali già prodotti vuoi per la necessità di analizzare quantità di dati molto importanti.

Il secondo. Tutte le volte che sento parlare di individualismo e che analizzo la gestione dei vari blog, di viaggio, di fotografia, di lettura, ecc… non riesco a fare a meno di pensare al film prova d’orchestra, di Federico Fellini, in cui ciascun orchestrale ritiene di essere l’unto del Signore nel settore musicale e rifiuta di cooperare con gli altri e, soprattutto, rifiuta il coordinamento del direttore. Con il risultato del caos assoluto e della inutilità della propria scienza musicale a sé stante.

Il terzo. Si dipinge il mondo delle start-up californiane come un mondo idilliaco in cui la collaborazione e lo scambio di idee siano all’ordine del giorno. Ma anche in tale contesto, che l’autore del libro sembra conoscere bene, è del tutto effimera la sensazione di libertà perché nella realtà lavorare per Google non significa fare ciò che interessa, ma significa fare ciò che piace secondo gli indirizzi e le finalità dell’azienda. Non è che un programmatore si sveglia la mattina e decide di intraprendere nuove strade di sviluppo perché ha avuto un sogno illuminante durante la notte.

Il quarto. Chi decide gli indirizzi di sviluppo è di solito un’istituzione sovraordinata. Che sia lo Stato, una Chiesa oppure un’azienda, le linee di sviluppo sono generalmente determinate a priori. Anche dove le linee di sviluppo sembrano inizialmente condivise (WWF, LegaAmbiente, SlowFood, ecc.) emergono delle strutture e delle persone che, per consentire la sopravvivenza del progetto, devono farsi carico del coordinamento e dell’armonica cooperazione… Non mi sovviene immediatamente il nome di un’esperienza veramente condivisa e di successo.

Purtuttavia…

Il quinto. la mancanza di collaborazione e di cooperazione costringe al nanismo operativo ed espone all’emersione di giganti che (dei veri e propri Gulliver: Uber, Google, Apple, Microsoft, Oracle, TripAdvisor, AirBnB, ecc.) che non possono se non temporaneamente essere contrastati e che permettono la sopravvivenza di pochi, minuscoli competitor destinati fatalmente ad essere schiacciati e diventare ininfluenti.

Grato per l’attenzione.

GianLuca M. di SlowTravel


L’articolo di Robinson (la Repubblica, 05 novembre 2017)


Idriss Aberkane, intellettuale francese e esperto in neuroscienze, lancia l’allarme sulla massificazione dell’intelligenza: “Non sappiamo più usare tutte le potenzialità che abbiamo, siamo incapaci di mettere in relazione universo fisico e mentale”. Ci insegnano fin da piccoli a non collaborare mentre il mondo funziona esattamente al contrario: vedi Steve Jobs

Liberare la scuola dal conformismo e dalla burocrazia per rendere più autonome le menti degli studenti.
Quello di Idriss Aberkane, per citare il suo illustre connazionale Charles de Gaulle, è un vaste programme: il giovane ( trentuno anni), emergente intellettuale francese esperto in neuroscienze cognitive lancia l’allarme sulla massificazione delle intelligenze, individuando nemici precisi: il voto e il giudizio, arbitrari incasellamenti di una realtà sfuggente come l’intelligenza. È una lotta che ha suscitato critiche, sospetti e attacchi ad personam, a partire proprio dal curriculum di un uomo che sembra ribellarsi così tanto alle certificazioni.
Controversie che hanno giovato al suo primo saggio, Liberate il cervello. Trattato di neurosaggezza per cambiare la scuola e la società, elogiato da Le Monde e già caso editoriale: sono oltre centomila le copie vendute nei primi due mesi e il libro, in traduzione in nove lingue, si propone come la chiave per accedere a un nuovo orizzonte formativo, quello della neuroergonomia.

Cos’è la neuroergonomia?
« È una scienza sviluppata nell’ambito della ricerca militare americana, per aiutare i piloti a prendere decisioni più rapide. L’idea principale è che l’informazione sia qualcosa che il nostro cervello può, metaforicamente, “ afferrare”. Idee, concetti e nozioni hanno un “ peso” per il nostro cervello, legato alla loro complessità. E così come nel mondo fisico l’ergonomia può aiutarci a sollevare o portare oggetti in modo più efficiente, in quello mentale la neuroergonomia ci può aiutare a fare lo stesso con i concetti » .

Vuole dire che esisterebbero delle “ maniglie” per le idee?
« Immaginate che il cervello sia una mano. Se dovete sollevare una caraffa, non vi basta un dito solo, dovete usare anche le altre dita per avere più presa. Così succede con le informazioni: in quel caso le “ dita” sono le diverse specializzazioni del nostro cervello, come la memoria spaziale, la memoria emotiva, quella autobiografica, la memoria sensoriale. Studi sui “calcolatori prodigio” come il tedesco Rüdiger Gamm ci mostrano che i geni matematici fanno proprio questo: per fare calcoli usano anche aree cerebrali che noi non adoperiamo a quello scopo, come il cervelletto. Se per imparare una lezione io leggo un testo scritto, ascolto un file audio e vedo un filmato, sto reclutando diversi tipi di memoria che, come le dita di una mano, concorrono a darmi una “ presa” più salda su ciò che studio » .

Quindi ci sarebbe una relazione molto stretta tra il mondo fisico e quello mentale.
« Pensi a una tecnica antica quanto Cicerone, quella del palazzo della memoria, usata anche da Giordano Bruno: se associamo dei dati da memorizzare, come le cifre di un lungo numero, a dei luoghi fisici, come le stanze di una casa, ci sarà molto più facile ricordarli.
L’organizzazione della memoria rispecchia il modo in cui esploriamo gli spazi fisici. E d’altra parte tutte le nostre capacità astratte, come il pensiero matematico o quello rivolto al futuro, derivano da moduli del nostro cervello formatisi per scopi molto concreti e pratici, come la sopravvivenza immediata.
Pensiamo alla caccia o alla raccolta di bacche nei tempi preistorici: erano attività completamente multisensoriali. Dovevamo cogliere input visivi, olfattivi, tattili, e poi integrarli in un’esperienza che generava apprendimento in modo fluido e naturale » .

Dobbiamo ricostruire questa multisensorialità per apprendere meglio?
« Già Aristotele sottolineò come per studiare un albero non è sufficiente il testo: devi toccarne le foglie, annusarle e gustarle. L’esperienza scolastica si è invece impoverita assai rispetto alla capacità di stimolare tutti i sensi. Per dire: la scuola francese fino agli anni Settanta insegnava ai bambini a nuotare non in acqua, considerata troppo pericolosa, ma facendo loro ripetere i movimenti di braccia e gambe sospesi in orizzontale su uno sgabello. Ecco perché oggi c’è chi, per recuperare sensorialità, suggerisce di insegnare usando i fumetti, o i documentari, o i videogiochi » .

Cosa avrebbe traviato, per dirla con lei, la scuola?
« Un’antica vocazione politica. Da noi l’istruzione obbligatoria fu creata da Jules Ferry soprattutto in opposizione alla Chiesa e alle velleità di secessione di regioni come la Borgogna e la Bretagna. Già Machiavelli nel Cinquecento raccomandava ai francesi di accentrare il potere dello Stato, e questo è stato ciò che la monarchia, Napoleone e poi la Repubblica hanno continuato a fare. Con gli insegnanti come primo rappresentante dell’autorità statale che i bambini incontrano nella loro vita: l’emanazione di un potere centrale che, attraverso i voti, incoraggia l’uniformità e il conformismo, scoraggiando al tempo stesso l’interazione e la solidarietà tra gli scolari. Così oggi a scuola il lavoro collettivo è demonizzato: vietato copiare! E invece si loda lo sforzo solitario. Nella realtà lavorativa, e nella vita, invece è l’opposto: il lavoro in solitudine conduce a poco, e quello di gruppo è fondamentale » .

E questo, per lei, spegne la passione per la conoscenza.
« Inseguendo il sapere ma trascurando i sensi abbiamo perso il sapore. Che invece è fondamentale. Steve Jobs ci ha dato una grande lezione quando ha detto che per avere successo è cruciale inseguire la propria passione. Perché per riuscire davvero ci vuole una grande resistenza, e solo se una cosa ci interessa davvero possiamo trovare la forza di non rinunciare alle prime avversità. La scuola invece, così come è oggi, spegne le passioni. Lo esemplifica la querelle sorta sul mio curriculum accademico. Quando hai tre dottorati, o hai lavorato molto duramente, o sei un impostore. E io non avevo lavorato duramente. Ma non perché fossi un impostore, semplicemente perché provavo piacere in ciò che studiavo.
L’aut-aut stacanovista/impostore è un sintomo di ciò che non va nella scuola: l’eclisse del piacere » .

A proposito dei dottorati: l’“ Express” ha parlato di “cv dopé”, “ Liberation” ha fatto notare la stranezza di tre dottorati a soli trent’anni e altri blog francesi si sono chiesti come mai con tre dottorati lei abbia poche pubblicazioni “ peer reviewed”.
« Per difendermi da queste insinuazioni ho pubblicato sul mio sito i tre diplomi di dottorato, che già contano come studi peer reviewed, inoltre ho quattro studi su Sens Public, rivista accademica peer reviewed e altri lavori non pubblicati perché condotti per la ricerca industriale. E chi collabora col privato, pensi ai ricercatori di Google o Amazon, non pubblica i propri lavori se non raramente. Guardi: il libro in Francia ha venduto così bene che due giornalisti belgi, indipendentemente l’uno dall’altro, durante due interviste mi hanno chiesto: “E dillo, Idriss: hai organizzato tu questa polemica, vero?”».

In attesa di nuove idee. VanGogh, Caravaggio, HCB

Quante volte, negli ultimi anni, abbiamo visto passare il nome di Henri Cartier-Bresson sui cartelloni pubblicitari delle nostre città?

E quante volte abbiamo visto pubblicizzata una mostra di Van Gogh oppure una riproposizione, magari in chiave “visual”, delle opere di Caravaggio e di Giotto con effetti speciali e l’uso delle “nuove tecnologie” considerate l’ultima frontiera della cultura, della scienza e dell’informazione?

Sorge il sospetto che gli eventi culturali degli ultimi anni si ripetano e, soprattutto, presentino continuamente gli stessi “volti noti”. Il resto delle esposizioni, mostre ed eventi minori, ruotano attorno ai “grandi eventi” come fossero “l’antipasto” che stuzzica l’appetito convogliandolo verso il primo piatto, ovvero anticipando le vere “star”…

Viene spontaneo domandarsi – come già scritto da altri esperti della materia – se siamo dinanzi a “cultura” o a nuove forme di “intrattenimento” offerte al pubblico senza spiegare, allo stesso, quale sia la differenza. Così come non è spiegato, al pubblico, che entrambe (cultura ed intrattenimento) sono alternativi – non sostitutivi – e sono entrambe fruibili, si tratti di 1000 o di 40 milioni di persone.

Negli ambienti e nei salotti succede lo stesso con il ripetersi delle medesime frasi da anni.

L’antipasto e la pietanza…

Ma è proprio così? C’è chi vede e chi parla di una nuova forma di superbo snobismo nel voler differenziare o distinguere ciò che è arte, cultura, scienza da ciò che è vendita e mercato.

Anni fa Piero Angela rispondeva con la necessità di non confondere l’educazione alla cultura, dovere di una società evoluta, con la mera compravendita del biglietto (ticket) dove le logiche economiche e transazionali trovano la loro attestazione. Lo stesso vale per i concetti di cultura e scienza che non dovrebbero essere allontanati o differenziati, piuttosto essere considerati all’interno di un unico rapporto i cui elementi operano per il conseguimento di uno stesso fine.

Viviamo in un mondo di divisioni con il mito della standardizzazione e la cultura e la scienza non sono esuli da questo modo di pensare: si è passati dal concetto di “cultura-alta” allo spezzettamento ed affermazione di tante “mini-culture”, più facili da raggiungere e manipolare. Da una parte chiediamo a tutti di conoscere l’inglese perché sembra essere la lingua universale, quasi un latino del XXI secolo, dall’altra affermiamo un nostalgico, a volte anacronistico e comunque riposante ritorno al dialetto, visto quasi come il ritorno al caldo seno materno.

Con il progresso ed i miglioramenti che hanno caratterizzato il percorso dell’uomo e del mondo che lo ospita, non abbiamo avuto la capacità di accrescere ed approfondire le nostre conoscenze culturali, tantomeno siamo stati in grado di evolvere le connessioni – oggi, però, termini come “rete” e “network” sono snocciolati da tutti anche a sproposito – ed i contenuti di questi concetti.

La scienza ha portato alla luce “misteri” della cultura come l’uso di determinate materie usate nelle pitture antiche o nella composizione di manufatti di epoche assai lontane da noi; trasmesso ed illustrato dalle menti più evolute in tutti i campi del sapere, inclusi quello dell’educazione e della critica.

Ma oggi tutto questo dove è andato a finire?

Non potrebbe essere, piuttosto, che il dejà vu nasconda, la saturazione delle idee in un mondo che, all’opposto, non fa altro che parlare – ed abusare – del termine creatività…

Chi definisce le agende culturali, organizza e gestisce gli eventi ha il compito primario di generare introiti per i propri datori di lavoro, ma come giudicano (nel loro intimo) gli esperti del settore? O dobbiamo invece pensare che si sia attivato un circolo vizioso in cui l’esperto fornisce il proprio supporto scientifico ad operazioni semplicistiche ed affrettate, magari nella speranza di poter un giorno diventare esso stesso parte organica del sistema.

Tutti in fila per entrare alle Scuderie del Quirinale

Ed in quest’ottica diventano comprensibili operazioni pseudo-culturali che hanno la palese ambizione di attirare masse impreparate che lanceranno comunque i loro gridolini di ammirazione, scatteranno selfie a raffica, specie se le opere sono sostituite o affiancate da installazioni multimediali, ologrammi e rappresentazioni teatrali.

E le idee, allora, che fine hanno fatto in questa Babele di super/mega/tera byte di informazione connessa h24? Le idee, appunto, quella lampadina che si accende quando meno te lo aspetti, e che ai tempi di Van Gogh o di Giotto erano veicolate dalle arti, unico mezzo di informazione e di sviluppo.

Le idee trasformate in quelle opere d’arte (pittoriche, musicali, scultoree, etc.) che sono giunte fino ai nostri giorni e che studiamo per “passare l’esame” ma che non ci trovano educati allo stimolo della conoscenza, “piattaforma di lancio” di una nuova strabiliante idea.

E così abbiamo un’educazione che non forma, un’istruzione che non dà cultura, che nonostante i progressi della scienza e della tecnologia non ha consentito la formazione di livelli profondi di conoscenza, lasciando il posto, invece, all’illusione della stessa.

Fatta salva qualche lodevole eccezione, i critici diventano cauti per paura di non ricevere like a sufficienza, i docenti riducono le pretese per paura di ricevere una valutazione insufficiente, i dirigenti delle organizzazioni offrono prodotti di mediocre qualità per paura di non raggiungere obiettivi prefissati da chissà chi… con la spada di Damocle dei fondi che non verranno elargiti se tali obiettivi non saranno raggiunti.

Federico Zeri

Siamo la società in cui la conoscenza e la competenza si valutano in “like” e consideriamo alieni un Daverio, uno Zevi o perfino -anche nella sua treatalità- uno Sgarbi, pur riconoscendogli l’altera, autorevole, eccezionale competenza.

Dove stiamo andando?

EnoGastronomia: rinunciare alle valutazioni?

Sebastien Bras (a sinistra) con suo padre Michel Bras. (JOSE TORRES/AFP/Getty Images)

La qualità dell’alimentazione, al pari di quella dell’alloggio e dei mezzi di trasporto utilizzati, è uno dei fattori determinanti il successo di un viaggio, specie se è uno SlowTravel. Non solo perché i problemi digestivi sono molto complessi da gestire fuori della nostra abitazione, ma piuttosto perché assaporare piatti saporiti accompagnandoli con la giusta bevanda può amplificare la sensazione di gradevolezza e piacere.

Per questo motivo sono state inventate dapprima le guide gastronomiche cartacee (Zagat, Michelin, Gambero Rosso, ecc…) e in seguito siti di recensione gastronomica (uno per tutti: tripadvisor). Pur nella riservatezza delle modalità di acquisizione delle recensioni e delle valutazioni, entrambi gli strumenti sono validi ausili quando ci si trova in viaggio e non si può contare sui consigli (a volte interessati) di un “indigeno”.

Questa introduzione ci è sembrata necessaria perché, negli scorsi giorni, ha fatto clamore questa notizia:

Lo chef francese Sébastien Bras, del ristorante “Le Suquet” di Laguiole, nel sud della Francia, ha chiesto che gli vengano tolte le tre stelle che ha sulla guida Michelin, la più famosa e rispettata guida gastronomica d’Europa, e di non essere incluso in quella che uscirà il prossimo anno. In un video pubblicato su Facebook, Bras ha detto che avere le tre stelle gli causa troppa pressione: vuole cucinare dei buoni piatti senza l’ansia di dover servire un giudice della guida in incognito, e senza le aspettative generate dalle tre stelle.

Siamo profondamente delusi da questa scelta per due motivi:

  • il primo, fondamentale, ci porta a sperare che un ristoratore, dalla più angusta bettola di un angiporto del Nord Europa al ristorante con visuale a 180 gradi sulla costiera amalfitana, dovrebbe sempre tendere a dare il meglio della propria tecnica, indipendentemente dal fatto che il commensale sia un ispettore della guida Michelin oppure un emigrante in cerca di futuro migliore;
  • il secondo, forse più nascosto e magari difficile da esplicitare, potrebbe derivare dall’eccessiva frequenza di ispettori della guida, quasi come se tali ispezioni si svolgano quasi quotidianamente e (a pensare male a volte ci si azzecca) più a favore del palato dell’ispettore che della Guida che esso dovrebbe rappresentare.

Un’ultima considerazione. Chi gestisce un esercizio pubblico deve essere cosciente che il proprio lavoro è comunque soggetto a valutazione quotidiana, che lo richieda o meno.

Ognuno di noi almeno una volta nella vita ha pronunciato questa frase: “Ieri sera hai poi provato quel ristorante di cui mi parlasti? com’era?” “Mah, mi aspettavo di meglio. Ho dovuto aspettare perché non avevano registrato la prenotazione, due piatti che mi sarebbe piaciuto assaggiare erano sul menù ma non in cucina…” oppure “Meraviglioso. Un servizio eccellente. Una pulizia eccezionale, personale competente. Figurati che uno dei camerieri, neanche il sommelier poi, mi ha consigliato di abbinare un vino diverso da quello che avevo scelto. Guarda, una vera delizia per il palato! E mi ha fatto risparmiare anche venti euro. Guarda, te lo consiglio proprio!“. E non dovrebbe essere lasciata alla discrezione dell’operatore la scelta se essere recensito o meno, purché l’operazione venga effettuata nella trasparenza. Ma su quest’ultima condizione c’è ancora molto da lavorare…

Mappa dell'Europa

Orizzonti vicini… Orizzonti lontani… Viaggio… Vacanza…

Il settimanale femminile del Corriere della Sera dell’8 luglio 2017 dedica una pagina al confronto tra il viaggio-vacanza in Italia ed il viaggio-vacanza nel mondo rispetto al quale vorrei fare alcune considerazioni, che poi animano anche lo spirito di SlowTravel.

La prima è che non esiste il viaggio-vacanza ma esiste il viaggio e la vacanza. Ad entrambe le attività dedichiamo generalmente il tempo delle ferie per ricaricare le pile in vista del prossimo anno lavorativo e qualche volta desideriamo essere vacanzieri, altre volte viaggiatori.

Il vacanziere cercherà di effettuare la ricarica trascorrendo un periodo di riposo in un unico posto, dedicandosi a lunghe dormite, passeggiate nei dintorni evitando le ore più scomode e sperimentando le amenità gastronomiche ed artigianali, godendo di feste e divertimenti locali, spesso organizzate ad hoc. Anche nel passato esistevano i vacanzieri (se ne avevano le possibilità economiche): gli imperatori ed i nobili romani scappavano ai Castelli, a Capri o a Tivoli; i veneziani, invece, si ritiravano nelle loro ville… Ad entrambe le categorie dobbiamo essere grati per quello che hanno costruito, mentre non dobbiamo certo essere grati ai tanti costruttori di condomini per vacanze che hanno distrutto tanta parte delle nostre coste.

Il viaggiatore, da parte sua, trarrà l’energia per affrontare un nuovo anno nella scoperta ed esplorazione di luoghi nuovi, confrontare abitudini, clima, gastronomie differenti. Porterà con sé, al ritorno, un bagaglio di esperienze e di sensazioni che saranno di stimolo o di appagamento per il resto dell’anno.

Rimane irrisolto il “dove?”. Per noi di Slow Travel, qualunque posto “dove?” va bene se avvicinato con lo spirito giusto. Si può essere uno Slow Traveller in Nuova Zelanda, in Mongolia, in Argentina, in Costa Rica, in Canada. Noi, però, limiteremo il nostro orizzonte Slow in una parte del mondo che ci consenta di viaggiare con i nostri ritmi ed appagando i nostri interessi. E di poterlo fare anche in autonomia.

Ecco quindi che gli orizzonti lontani si avvicinano e il nostro mondo, quello che conosceremo più approfonditamente, comprenderà l’Europa, da Capo Nord a Marrakech, da Baku a Reykjavik, non trascurando la possibilità di esplorare anche l’America del Nord che dell’Europa è -lo si accetti o meno- propaggine culturale.

Non basteranno le vite di quarantaquattro gatti per esplorare questo immenso territorio che contiene un enorme patrimonio storico, culturale, naturalistico e ricreativo come nessun’altra parte del mondo. Tutti insieme, però, ce la faremo.

Perché una papera nel nostro logo?

In realtà nel logo di Slow Travel non c’è una papera.

È un Germano Reale.

A chi non è capitato di soffermarsi sulla riva di un laghetto all’imbrunire e tornare bambino gettando pezzetti di cibo a quei simpatici animali che sembrano la rappresentazione vivente della calma?

Ma il Germano Reale è anche un animale migratorio, che può percorrere migliaia di chilometri alla ricerca di altri laghetti dove attendere con calma la transizione delle stagioni.

Slow Travel è proprio così. Non la lentezza assoluta che sconfina nell’inedia, ma una una lentezza ragionata che permette di esplorare con serafica calma i luoghi dove trascorrere la bella stagione e poi… via alla ricerca di una nuova bella stagione.

Così lo Slow Traveller si sposta da un luogo all’altro, si ferma, gira in tondo, familiarizza con gli indigeni, forse si ferma del tutto o forse riparte.

 

Slow Travel. Come è cominciata…

Tutto è cominciato molto tempo indietro.

Il viaggio slow è sempre stato nella mente di alcune persone che hanno sempre cercato di concretizzare i propri viaggi (fossero essi di piacere, di riposo, di lavoro). Al ritorno c’era sempre qualcosa di diverso da raccontare, di inusuale, di non banale.

Piano piano si è delineato un modo non consueto di rapportarsi con i posti. Il dover partecipare a riunioni di lavoro in giro per l’Europa, ha permesso di conoscere molto bene città come Parigi, Londra, Dublino, Stoccolma, New York, Montreal, Madrid. Perché ogni volta c’era la volontà di approfondire la conoscenza dei posti. Così, a margine di una riunione in Austria, perché non andare a visitare le case di Hundertwasser? Oppure perché non ritagliare il tempo per una gita sul Chiemsee quando ti trovi per un periodo a Monaco? O come non accettare l’invito del collega finlandese a passare il fine settimana sulla sua isoletta?

Questo modo di viaggiare è diventato un un’abitudine, peraltro agevolata dal fatto che c’era sempre un collega-amico locale con cui condurre le esplorazioni. Che si è riflessa anche sul modo di viaggiare personale. Mai all’insegna della fretta, mai all’insegna dell’esibizione, sempre alla ricerca del contatto umano con la gente del posto, sempre disponibili a lasciarsi prendere dallo spirito del luogo, dai sapori, dagli orari…

E con notevole flessibilità per quanto riguarda i mezzi di trasporto. Come ci si muove in Belgio? ma con il treno, naturalmente. E in Olanda? Banale: con la bici. E l’Abruzzo come si visita? Zaino in spalla, senza dubbio. E l’America? Non si può sbagliare: in macchina. E il Veneto? con un mix di questi mezzi. Ma non solo il Veneto… Perché non è il mezzo di trasporto che determina la velocità del viaggio, ma è piuttosto la nostra predisposizione mentale a dettare il ritmo.

Così, per andare da Roma a Venezia, si possono impiegare anche un mese perché tra la partenza e l’arrivo ci sono talmente cose da assaporare (con la mente e con le papille) da farti perdere il senso del tempo. E non sta scritto da nessuna parte che si debba necessariamente arrivarci a Venezia, che si debba seguire obbligatoriamente il programma che si era stilato prima di partire. Perché il Montefeltro è meraviglioso e non ci si deve fermare per apprezzarne la natura, la storia, la gastronomia. Ed anche il delta del Po ti coinvolge con i suoi ritmi.

In questi moderni esploratori è cominciata lentamente (come avrebbe potuto essere altrimenti?) ad emergere l’esigenza di mettere a fattor comune le proprie idee… E piano piano ha cominciato a farsi strada l’idea dell’associazione, del sito (o forse è accaduto in senso inverso?).

Ecco, tutto è cominciato così.